OMICIDI: caso Trigona-Paternò

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OMICIDI: caso Trigona-Paternò
OMICIDI PASSIONALI - CASO TRIGONA – PATERNO’
VITTIMA: Giulia Trigona, contessa di Sant’Elia
OMICIDA: Vincenzò Paternò
DATA: 2 marzo 1912
CORPI DI REATO: pugnale da caccia, ciocca di capelli e forcine della vittima, straccio insanguinato, scatola di fiammiferi.

Nella tarda mattinata del 2 marzo 1911, la contessa Giulia Trigona di Sant’Elia, 29 anni, moglie infelice del conte Romualdo Trigona di Sant’Elia, madre di due bambine, dama di corte della regina Elena, morì per mano del suo amante, il tenente di cavalleria barone Vincenzo Paternò, in una stanza del modesto hotel Rebecchino di Roma. La relazione tra i due era iniziata l’11 agosto 1909 ma, dopo circa due anni di passione, appuntamenti furtivi e pettegolezzi, lo scandalo stava ormai per travolgere le famiglie. Fu così che Giulia Trigona decise di troncare la relazione, contro il volere di Vincenzo Paternò. 
La mattina del 2 marzo, Paternò, in procinto di partire per Napoli a seguito del suo reggimento, chiese a Giulia un ultimo appuntamento. La donna, seppure a malincuore, acconsentì. L’incontro fu fissato alle ore 12 all’hotel Rebecchino, luogo consueto per i loro appuntamenti segreti. Nella mente di Paternò, però, era già progettato il tragico epilogo che si sarebbe compiuto di lì a poco. Lungo la strada che lo conduceva all’appuntamento, Paternò fece una breve sosta in un negozio di armi sito in via dei Crociferi, dove acquistò un coltello da caccia grossa. Alle 12 in punto giunse al Rebecchino e chiese una camera matrimoniale, la stanza numero otto. Poco dopo arrivò Giulia che lo raggiunse in camera. Dopo circa un quarto d’ora una cameriera che passava nel corridoio, attratta dalle grida soffocate che giungevano dalla camera numero otto, spiò dal buco della serratura e vide la seguente scena: l’uomo brandiva un coltello e ripetutamente colpiva la donna, poi afferrò una pistola e, avvicinatasela al viso, fece partire un colpo. All’arrivo della polizia ecco come si presentava la scena del delitto: sul letto imbrattato di sangue giaceva il corpo senza vita della donna con indosso solo un gonnellino corto nero e un busto bianco, poco più in là c’èra l’uomo col viso sfigurato dal colpo di rivoltella che si era fatto esplodere nella regione dell’orecchio destro. La rivoltella era sul pavimento. Vincenzo Paternò, soccorso immediatamente, si salvò, e fu accusato di omicidio premeditato. Nel corso dell’istruttoria il difensore di Paternò invocò la semi-infermità di mente per il suo assistito e chiese di sottoporlo a perizia mentale, elencando le malattie sofferte dall’imputato, che gli avevano fiaccato la mente e il corpo. Il 24 ottobre 1911 Vincenzo Paternò fu inviato in osservazione presso il manicomio giudiziario di Aversa, affidato al Prof. Filippo Saporito, l’illustre alienista direttore dell’istituto. Il risultato della perizia, però, smentì la tesi della difesa e Paternò fu ritratto da Saporito come un volgare simulatore. Riconosciuto sano di mente, l’imputato fu trasferito nel carcere di Roma “Regina Coeli”.
Il processo si aprì il 17 maggio 1912 presso Corte d’Assise di Roma. Le figlie della vittima si costituirono parte civile. La Corte, non credendo alla volontà suicida dell’imputato, condannò Vincenzo Paternò alla pena dell’ergastolo. Il verdetto fu pronunciato la sera del 28 giugno 1912. 
Nel 1942, a 62 anni Paternò ricevette la grazia. Riacquistata la libertà si sposò ed ebbe un figlio. Morì nel 1949.