La sede originaria: "Carceri Nuove"
La vecchia prigione seicentesca delle Carceri Nuove di via Giulia, fatta costruire da Papa Innocenzo X e che rappresentò il fiore all'occhiello della politica penitenziaria dello Stato Pontificio, venne scelta come cornice ove collocare i reperti che testimoniassero “in ogni fase la battaglia che l'umanità, in ogni tempo, pur sotto forme diverse, ha sostenuto contro la delinquenza, coglierne i caratteri particolari a ciascuna epoca e a ciascun paese, e comparare i vari sistemi per fornire materiale di studio e di proposte nei nostri ordinamenti”.1
Il museo si articolava in varie sezioni: sezione del delitto (con reperti relativi a diverse tipologie di reati, dal falso all'omicidio) - attività statale contro i delinquenti (con la rappresentazione delle tecniche investigative) - esecuzione delle pene e delle misure di sicurezza (oggetti provenienti dalle carceri definiti in maniera suggestiva "malizie carcerarie", ovvero sotterfugi inventati dai detenuti per occultare armi, per evadere, per compiere atti di autolesionismo) e infine una sezione storica contenente bandi ed editti, strumenti di tortura e di esecuzione capitale.
Nel 1968 il Museo Criminale fu smantellato per destinare i locali delle Carceri Nuove ad altro uso, i reperti furono depositati nel deposito del carcere giudiziario “Regina Coeli”in attesa di un nuovo allestimento in altra sede.
La sede attuale: le prigioni del Palazzo del Gonfalone (foto)
Il Museo Criminologico è ospitato Palazzo del Gonfalone, edificio risalente al 1827, fatto costruire da Papa Leone XII per destinarlo a casa di correzione dei giovani minorenni provenienti dal carcere clementino collocato presso l’ospizio apostolico di San Michele.
La casa di correzione, data dal papa in gestione all’Arciconfraternita della Carità, accoglieva due categorie di soggetti: i minori di vent’anni accusati di delitti e i cosiddetti discoli, ragazzi, cioè, particolarmente vivaci, spediti in quel luogo da genitori o tutori per fini “educativi”, che ottenevano il permesso dal papa in cambio del pagamento degli alimenti.
L’edificio del Gonfalone, innalzato su tre piani, disponeva di quaranta celle. Al piano terra erano situati il refettorio, la cappella, un deposito per la lana, le vasche, un passaggio coperto e un cortile dove, a gruppi di otto, agli ospiti era concesso di trascorrere pochi minuti all’aperto, gli unici momenti a cui ai cui i giovani prigionieri era consentito parlare tra loro.
Al primo piano, un salone che riceveva luce da due grandi finestroni posti sui due lati, veniva utilizzato per la filatura della lana, l’unica attività svolta dai giovani per conto dell’ospizio del San Michele e due stanze occupate dai deputati della Carità. Il cappellano, incaricato di dire messa e di insegnare ai giovani “altresì nel ben vivere”, svolgeva la carica di direttore, e, insieme all’infermiere e ai custodi, aveva alloggio nell’edificio. Così Morichini descrive il severo arredamento dei cubicoli che ospitavano i giovani: “Dormivano la notte i prigionieri chiusi nelle lor celle sopra un pagliericcio con coltri di lana, ch’era collocato sopra un piano di mattoni a foggia di letto, che levatasi da terra. Le celle non avean mobilia di sorta, tranne una mensola confitta in mezzo all’uscio e si apriva dal corridoi esterno, facean che il cappellano e i custodi potessero vedere il prigioniere. Le finestre esterne, munite d’inferriate e piuttosto piccole, eran locate sì alte da non potervisi giungere colla persona. A mezza notte tutti i custodi facevano una generale visita alle celle. Fatto giorno n’escivano i giovani e andavano nella cappella ad ascoltare la messa. Ricevevano poi un pane per colezione e, nettato il tutto, eran condotti al lavorìo. Qui era perpetuo il silenzio; due custodi eran sempre presenti e bene spesso anche il cappellano”. 2
Non vi erano differenze tra i condannati e i discoli nel ricevere il vitto e nell’obbligo del lavoro, tranne che i primi dovevano restare per la durata della pena, mentre i discoli permanevano nell’istituto il tempo stabilito nella richiesta dei parenti. I condannati che compivano i ventuno anni e non avevano finito di scontare la pena, eranono destinati a completare l’espiazione della pena nei bagni penali o nella casa di detenzione con la conseguenza che “per tal modo si perdeva tutto il bene acquistato nella correzione; quando poco mancasse a compier la pena e si scorgesse nel giovane un verace emendamento, procuratasi piuttosto d’ottenergli la liberazione.”
La limitata capienza delle quaranta celle, che costringeva le autorità della prigione a inviare i giovani nelle attigue Carceri Nuove site in via Giulia, indusse il pontefice Pio IX a cercare un nuovo edificio per trasferirvi la prigione minorile, cosicché il carcere leonino fu abbandonato e nel 1854 i prigionieri trasferiti a S. Balbina, capace di centocinquanta posti.
Rimasta inutilizzato per alcuni anni, la prigione leonina fu quindi destinata a sede dell’Archivio centrale di Stato per essere, infine, acquisito dall’Amministrazione penitenziaria nel 1966. I lavori per adattare l’edificio a sede del Museo iniziarono nel 1973 e furono completati nel 1975, anno in cui fu riallestito dopo una chiusura durata otto anni.
1. Vozzi, R. : Il Museo Criminale, in Rivista di diritto penitenziario, 1943
2. Carlo Luigi Morichini, “Degli Istituti di carità per la sussistenza e l’educazione dei poveri e dei prigionieri”, Roma, Stabilimento tipografico camerale, 1870